di Er Matador


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Partita che si può riassumere in un telegramma di quattro parole: si è sbloccato Immobile.
Fondamentale in tal senso l’amichevole de facto col Verona, assai poco probante sul piano tecnico quanto decisiva nel tirare fuori dal tunnel – principalmente psicologico – il finalizzatore principe.
Guarigione peraltro incompleta quella del bomber di Torre Annunziata, che ha contribuito alla mancata archiviazione della pratica già nel primo tempo con errori sottorete a dir poco evitabili ma ha invertito una tendenza devastante, per la squadra più che per lui in prima persona.

Più in generale: se la concretezza in fase di realizzazione dipende in gran parte dalla risorsa primaria e insostituibile, per la manovra d’insieme occorre allargare lo sguardo.
Includendo innanzitutto l’avversario, assai diverso dalla formazione modesta ma carognesca incontrata a Bucarest.
Il suo antipaticissimo allenatore ha dato spazio al proprio lato presuntuoso, mandando in campo una versione meno qualitativa del più pretenzioso Brescia di Mazzone: e l’atteggiamento da grande, non sostenuto da doti tecniche all’altezza, ha steso tappeti rossi sotto i piedi dei fantasisti di Inzaghi.
La cui esibizione va sempre parametrata a un avversario molto più permeabile rispetto alla media, ma ha restituito un liberatorio piacere di giocare a calcio dopo settimane di stitichezza creativa.

L’opposizione dei rumeni, debole anche sul piano fisico, ha compensato l’assenza dei chili e centimetri di Milinković-Savić, trasformando il suo temporaneo avvicendamento in un punto di forza.
Troppo netto il divario fra le estemporanee apparizioni da guest star, che il serbo annega spesso in interminabili minuti di nulla, e l’ispiratissima continuità che Luis Alberto ha garantito in una posizione simile: anche se connotata in direzione di un 3-4-2-1 concettualmente vicino – perlomeno da metacampo in su – all’ancelottiano albero di Natale.

Il resto l’ha fatto un Felipe Anderson in versione iradiddio, capace di produrre a getto continuo invenzioni e superiorità numeriche.
Evidente la continuità col secondo tempo della Arena Națională, e col recupero contro l’Udinese, nel felice connubio fra una partenza in posizione fluida e una collocazione finale prevalente sulla corsia di sinistra.
Molto migliore, rispetto alle gare citate, la collaborazione dei compagni a centro area: sulla precisione – come già osservato – c’è ancora da lavorare, ma la facilità con cui guadagnavano la posizione al tiro e la porta di Vlad non ha punti di contatto con gli stenti dell’ultimo periodo dalla trequarti in su.
Cosa potrebbe diventare il brasiliano con un minimo di testa e continuità?
Meglio non pensarci, anche perché le parole derivanti dalle suddette considerazioni sono più adatte alla carta igienica che a quella stampata.

Efficacissimi gli inserimenti di Parolo, a maggior ragione se il varesino uscirà dall’incantesimo che lo attanaglia nelle conclusioni.
Giusto per non naufragare in una serata dalla facilità potenzialmente ingannevole, cosa non ha funzionato fra le tante note positive?

Innanzitutto l’ennesimo surplus di lavoro in Paideia, dettato stavolta dallo stop di Cáceres: chi vuole inveire contro la sfortuna faccia pure, ma rimane il fatto che acquistando elementi con una storia clinica divisa in volumi A-L e M-Z la si aiuta non poco.
Poco convincente anche la media realizzativa in rapporto allo tsunami di gioco e occasioni rovesciato nella metacampo rumena.
A tratti è parso di rivedere i primi quarantacinque minuti col Benevento, chiusi sullo stesso punteggio di 3-0 e con una situazione al limite della sospensione per manifesta inferiorità: una frazione cui l’ingresso di Ciciretti, il risveglio degli avversari da un approccio catatonico e un golletto apparentemente innocuo fecero seguire il rischio di una rimonta.
Stavolta Felipe Anderson ha chiuso ogni discorso per tempo, ma occorre maggiore cinismo per non averne neppure bisogno.
Segnale negativo il pur ininfluente gol subito durante i titoli di coda: l’ennesima dimostrazione della fragilità di questo gruppo quando alza il piede dall’acceleratore, impedendogli di gestire senza danni le inevitabili pause.
Agrodolce la prova gagliarda e complessivamente incisiva di Lulić: se non ci fosse bisognerebbe inventarlo ma è ora di inventare anche un sostituto, che al momento non può essere – non a livello di contributo complessivo, almeno – l’involuto Lukaku.

Si è avuta conferma, in definitiva, della piacevolezza di gioco e dei livelli qualitativi che la Lazio sa offrire nella sua versione migliore.
Si continua, invece, ad attendere indicazioni più probanti sull’efficacia a ritmi più bassi e sulla velocità di crociera: parametri fondamentali per chi vuole lottare a lungo termine e su tre fronti.