di Er Matador


Quando una squadra esprime una chiara supremazia territoriale e viene beffata nel finale, da parte di un avversario che sin lì non aveva superato la metacampo, in genere si chiosa: “è il calcio”.
Riferendosi con ciò ai mille fattori che rendono questo sport e i suoi risultati senza confronto sul piano dell’imprevedibilità. E che, in fondo, ne determinano il fascino.
Ebbene, un simile discorso non si applica a Lazio-Chievo: nella quale il tramite fra l’andamento e il risultato della gara, smentendo la loro apparente contraddizione, è costituito da un rapporto causa-effetto così ferreo da risultare ampiamente prevedibile a priori.

Venti e passa giornate di campionato hanno infatti collocato la formazione di Inzaghi fra le ultimissime del torneo per organizzazione offensiva: una volta arrivati alla trequarti con logiche più o meno d’insieme, si recita a soggetto.
Peccato che gli attori protagonisti fossero o assenti (Immobile, Keita) o inadeguati a caricarsi la squadra sulle spalle (Felipe Anderson), in entrambi i casi per circostanze del tutto preventivabili.
Peccato che il sostituto – soprattutto nel caso del Ciro nazionale – sia un elemento del tutto impresentabile nel pur miserabile torneo di casa nostra, e anche qui non per un evento improvviso.
Se la sommatoria di questi fattori produce una sterilità offensiva a prova di bomba, davvero ci si può stupire o imprecare contro la malasorte?

La domanda va rivolta soprattutto alla società, che ha trascorso ormai quasi per intero alla finestra il mercato di riparazione.
Nessuno poteva pretendere o anche solo auspicare un rinforzo di quelli pesanti: bastava un centravanti qualsiasi, grazie al quale giocare in undici e ipotizzare un tiro in porta anche in assenza di Immobile.
Questa e altre lacune in sede di mercato – compreso quello estivo, i cui frutti immalinconivano quasi tutti in panchina – sembrerebbero assolvere il tecnico, che ha cavato una discreta prestazione collettiva da un organico con troppe caselle riempite solo nominalmente.
Purtroppo per lui e per la Lazio, un’analisi più attenta della formazione iniziale rivela scelte che, nella loro sommatoria, vanno a formare un plotone d’esecuzione.

Il reparto arretrato, innanzitutto: davvero servivano quattro difensori contro un avversario che, prima di trovare coraggio in qualche sortita finale, non aveva neppure preso in considerazione una qualsiasi strategia offensiva?
E poi quali difensori: a destra Basta, quando le gerarchie sul campo gridano il nome di Patric come titolare nel ruolo; a sinistra Radu, vale a dire l’opzione più difensiva, a stroncare in partenza qualsiasi velleità in merito a sovrapposizioni e contributi offensivi.

A proposito di questi ultimi, si è finalmente capito nelle ultime gare dove schierare Milinković-Savić: il più possibile vicino all’area, dove diventa letale.
Viene riportato a metacampo, dove annega nella solita, sterile fisicità: per fare posto a qualche soluzione tecnicamente migliore nel trio offensivo?
Non si direbbe, perché da quelle parti agisce Lulić: i cui piedi, che già gridano vendetta nella zona mediana, si trasformano in una sorta di anticoncezionale.
Un supplizio tecnico come il bosniaco nel ruolo di finta ala avrebbe senso in una gara da “primo non prenderle” o per tamponare un Dani Alves giovane, quindi in una situazione all’opposto di quella odierna.

Non contento, il tecnico affonda uno schieramento già discutibile coi cambi nel finale.
Rossi per l’ologramma di Đorđević va benissimo e andava tentato prima, al di là del fatto che il ragazzo non brilli per colpe almeno in parte proprie.
Luis Alberto e Lombardi, al di là dell’inconsistenza che rende il primo quasi virtuale, hanno un senso se si cerca lo spunto individuale rispettivamente tecnico (assist) o tattico (taglio).
Smettono di avere un senso se vanno a sostituire i terzini titolari, disarticolando totalmente la squadra: come Petković e Pioli nella loro fase calante, materializzando ancora una volta un immobilismo al limite dell’incantesimo.
E questo nel momento in cui gli altri otto in campo avevano già dato tanto, quando il tempo dell’assedio doveva lasciare spazio a una più cauta ricerca della sortita vincente: inutile aggiungere che solo a quel punto il Chievo trova il coraggio di tentare qualcosa, e anche qui tutto viene di conseguenza nella più totale prevedibilità.

Persino superfluo disquisire sulle prove dei singoli, compresa quella di Strakosha: prima chiude bene il palo nella situazione più difficile, quando l’avversario ha a portata di mano sia il tiro sia il cross; poi rovina tutto mettendosi fuori causa con un tuffo in assurdo anticipo sul tiro vincente.
Un errore sostanziale a prescindere dalla pericolosità della conclusione, scoccata da distanza ravvicinata e per giunta deviata, ma forse non del tutto irrecuperabile.
Colpevole nell’occasione anche Lulić, che tiene in gioco tutti rimanendo dietro ai compagni, anche se la disposizione difensiva su un’azione di rimessa non proprio folgorante dipende da responsabilità altrui.

Il malinconico tardo pomeriggio di ieri riassume in un’unica soluzione, lo si sarà capito, tutto quanto non ha funzionato sinora: e con un tempismo quasi provvidenziale, per come ha sbattuto in faccia certe situazioni quando c’è ancora tempo per intervenire sul mercato.
E in effetti pare si stia provvedendo: ma col rinnovo a Biglia, comprensivo di tre milioni all’anno – un’enormità per il monte ingaggi di Lotito – a un giocatore che non sa più come far capire di sentirsi un ex.
Fosse vero, significherebbe aver ipotecato in negativo non solo la stagione in corso, ma anche quelle successive.