Non sempre si può vincere. Ma non sappiamo più perdere


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Il tifoso della Lazio e la sconfitta

I tifosi di calcio si dividono in due macrocategorie: quelli che tifano per le squadre che vincono, cioè Juventus, Milan e Inter, e quelli che tifano per le altre. le motivazioni sono le stesse per tutti quanti: la squadra della città, la squadra del padre, del/della fidanzata, cose così. Il tratto che distingue le due macrocategorie è legato ai successi della squadra del cuore. I tifosi dei tre club vincenti, detti “strisciate” per via delle maglie a strisce verticali bianconere, rossonere e nerazzurre, discettano di moduli e di campioni con una certa puzza sotto al naso, sono volubili, non sposano calciatori e allenatori per un lungo periodo, si aspettano sempre nuovi clamorosi acquisti sul mercato, si accalorano relativamente per i torti arbitrali, godendo in pianta stabile di arbitraggi favorevoli contro le squadre più piccole.

Sono, insomma, quelli che non c’è gusto.

Poi ci sono gli altri, che riempiono il gap di vittorie con il senso d’appartenenza e pensano che sia meglio tifare per una squadra che vince uno scudetto ogni tanto, per ricordarsi tutto nei minimi particolari, che tifare per una squadra che non distingue più nella memoria un titolo dall’altro, un avversario dall’altro, una stagione dall’altra. Che rimuove le sconfitte e aspetta il ritorno dello squadrone.

La Lazio è una delle migliori squadre di seconda linea. Due scudetti, un bel po’ di Coppe, un paio addirittura internazionali. Una tifoseria in grado di sciorinare tempi e modi della propria storia, affinità e divergenze con gli altri modelli, tratti distintivi esclusivi. Tra questi c’è (c’era) la capacità di mantenere la rotta della fede tifosa anche e soprattutto nella sconfitta.

Diversi eventi leggendari della storia della Lazio raccontano sconfitte epiche, sfighe cosmiche, soprusi, tradimenti, angherie, lutti e lacrime. Uno dei più limpidi eroi biancocelesti è Giuliano Fiorini, centravanti di ottime credenziali appassito fino a scendere in cadetteria, faccia da rocker e fisico all’altezza del ruolo. Il bomber, oggi passato prematuramente a miglior vita, rimane nei cuori dei laziali per un gol segnato al Vicenza nel torrido pomeriggio del 21 giugno 1987.

Quel gol, segnato a 8 minuti dalla fine del campionato, consentiva alla Lazio di approdare al minitorneo a tre con Taranto e Campobasso per evitare la retrocessione in serie C. Due delle tre squadre si sarebbero salvate, solo l’ultima sarebbe retrocessa. La Lazio, persa la prima sfida col Taranto, s’impose al Campobasso nell’ultima gara decisiva, a Napoli, con un gol di Fabio Poli, stranamente non mitizzato come Fiorini dai tifosi. La partita col Vicenza stracciò ogni record di presenze paganti allo stadio per il campionato di Serie B.

Eventi che per un non laziale non sembrano degni di celebrazione. Per la squadra biancoceleste si tratta, in effetti, del punto più basso mai toccato nella sua storia. Quella gara arrivava, però, in fondo a una stagione affrontata con un grave handicap in classifica: 9 punti di penalizzazione per il secondo calcioscommesse, frutto della responsabilità oggettiva per il ruolo di primo piano recitato da Claudio Vinazzani, giocatore della Lazio, nell’organizzazione delle partite combinate.

Evitare la retrocessione malgrado un simile fardello fu una grande impresa. Che rischiava di sfumare per un vistoso calo della squadra nel finale di stagione, poi conclusa con i drammatici spareggi di Napoli. Nella personale classifica dei successi storici il laziale medio tiene quella squadra in grande considerazione, quasi alla stregua delle due Lazio scudettate o di quella che vinse la Coppa Italia nell’epico confronto con la Roma nel 2013.

Il culto della sconfitta, insomma, che spiega bene la psicologia del tifoso della squadra che non fa parte delle “strisciate”. Che però non è immutabile. E infatti i tifosi laziali stanno cambiando. La contestazione alla gestione Lotito, che dal 2004 a oggi ha ottenuto discreti risultati sul campo risanando una situazione economica disperata, va avanti da dieci anni. A Lotito si rimprovera la mancanza d’ambizione, i programmi di piccolo cabotaggio, le campagne acquisti al risparmio e il basso profilo.

La Lazio, durante gli undici anni della gestione attuale, ha vinto due volte la Coppa Italia e una volta la Supercoppa italiana, superando di gran lunga la propria media storica. Questo però non basta ai tifosi, che desiderano il ritorno ai fasti dei tempi di Cragnotti, in cui la Lazio conduceva campagne acquisti faraoniche ed era nel gotha del calcio europeo.

Le nuove aspettative dei tifosi laziali sembrano cozzare col culto della squadra di Fiorini, che lottava nei bassifondi della serie B. In realtà nascono da due elementi combinati tra loro: il primo è la necessità di alzare l’asticella delle aspettative nei confronti della contestata proprietà, che negli ultimi anni esprime una squadra stabilmente proiettata su buone posizioni di classifica. La Lazio è arrivata terza nell’ultimo campionato di serie A, giocando un calcio di alto livello, ma questo per i tifosi è un punto di partenza. L’altro elemento che gioca è la ritrovata ambizione della Roma, che galleggia da anni su una crisi economica che non sembra limitarne le mire. Anzi.

L’eterno duello tra le due squadre della capitale produce due sistemi di pensiero. La Roma tende a rimuovere l’esistenza stessa della Lazio, fastidioso dettaglio cittadino che smentisce il racconto di una società che si riaggancia alla grandezza imperiale e che cerca di ricostruire ascendenze nobili che non ha, mentre rivendica un’appartenenza al popolo che non può che condividere con i concittadini biancocelesti, diffusi nel territorio con le innumerevoli sezioni della polisportiva laziale e presenti a centinaia di migliaia, disseminati nelle pieghe del territorio cittadino e regionale.

La Lazio rivendica, invece, la primogenitura e i quarti di nobiltà che possiede, dimenticando che il calcio si gioca nel presente e che a poco serve opporre la data di nascita e le valorose storie dei pedatori antiqui a chi dovesse, eventualmente, proporsi con una squadra vincente nel terzo millennio. Questo lo scontro, condito dalle molte mancate vittorie dei giallorossi, abbonati al secondo posto in campionato fin dai tempi delle Inter di Mancini e Mourinho, subalterni oggi alla Juventus pigliatutto e polemici contro arbitri e palazzo con toni che ancora non consentono la catalogazione nel novero delle “strisciate”. Forse perché la Roma non ha la maglia a strisce…

I tifosi biancocelesti, divisi tra la contestazione antilotitiana e la resistenza al vicino di casa con mire egemoni, hanno perso all’improvviso le coordinate. Hanno salutato positivamente la galoppata della squadra dell’anno scorso, che ha centrato il prestigioso obiettivo della finale di Coppa Italia e della qualificazione alla finale della Supercoppa italiana e ai playoff di Champions League. Le prime due contro la Juventus, vincitrice di quattro scudetti consecutivi e finalista dell’ultima Champions League. L’altra contro il Bayer Leverkusen, solida protagonista della Bundesliga e del massimo torneo continentale.

I biancocelesti hanno perso tutti e tre i confronti, scatenando il malumore dei tifosi verso società e allenatore, rei di perdere i cosiddetti treni decisivi. Come se per Gatlin fosse disonorevole doversi inchinare a Bolt, come se fosse obbligatorio per una squadra emergente vincere uno spareggio dentro o fuori contro una squadra più esperta e robusta e in migliori condizioni di forma. Il paradosso è che lo stesso tifoso che mitizza la squadra che perse col Taranto e acciuffò la serie B col Campobasso non sopporta di arrendersi, come tutte le grandi squadre italiane, allo strapotere della Juventus, o di perdere uno spareggio per la Champions League.

Confondendo, così, con l’irrazionalità del tifoso, l’inferno col paradiso. Arrivando più volte a sostenere di preferire l’inferno al parsimonioso paradiso in bianco e nero di Lotito. cadendo nel tranello di emulare l’odiato rivale cittadino nel raccontarsi una grandeur che non è mai esistita.