di Er Matador


Pronostico quantomai facile, perché legato a un’unica variabile.
La xxxx aveva regolarmente superato in scioltezza le piccole, e altrettanto regolarmente collezionato imbarcate contro le formazioni di vertice.
I biancocelesti, nella prima fase della stagione, avevano dimostrato di poter appartenere a entrambe le categorie: bastava capire che Lazio sarebbe stata – se quella ipotizzata da Rizzitelli o quella Dortmund Edition – affinché il resto arrivasse a cascata, anzi a valanga.
E così è andata, con una supremazia tale da sfatare uno fra i più vili e odiosi luoghi comuni del pallone che rotola: in campo ci sono anche gli avversari.
Dell’impresa tecnica, perché tale merita di essere definita, si possono fornire due chiavi di lettura.

Una è legata alla parte tecnico-tattica, con una Lazio lontanissima dalle croniche carenze degli ultimi tempi e capace di riesumare un concetto che sembrava perso tra le figurine ingiallite degli anni ‘90: la squadra corta.
Lo spettacolo di ieri sera non ha nulla a che spartire con le due linee che Ledesma capitanava “indietro tutta”, regalando campo e baricentro all’avversario per competere sul pallone e sui confronti individuali.
La Lazio ha recuperato distanze fra i reparti e parsimonia nel pressing alto, ma con un atteggiamento assai più proattivo.
Interstizi chiusi a percussioni o movimenti senza palla avversari, all’estremo opposto dello scempio tattico materializzato sull’1-1 del Genoa.
Giocatori vicini in grado di trovarsi con passaggi corti a bassissima probabilità di errore, senza il Man-in-the-middle avversario pronto a intercettare e ripartire in controtempo.
I costruttori – nell’accezione positiva del termine – sempre a portata di mano, riducendo quasi a zero le imprecisioni in appoggio e ripartenza.
Fatte le debite proporzioni, sembrava la zona-catenaccio di Happel: vale a dire una versione semplificata, e con meno interscambi di posizione, del calcio totale.
La cui paternità, prima che a Michels in panchina e Cruijff in campo, spetta proprio al tecnico austriaco.
Protagonisti sul piano individuale? Oltre a una condizione fisica all’altezza e a una partita preparata nel migliore dei modi, i due interni di centrocampo.
Presi uno per uno, hanno alle spalle diverse prestazioni da urlo: ma in poche circostanze è capitato che entrambi si esprimessero contemporaneamente a questo livello, con una continuità nelle due fasi che ha permesso ai compagni di giocare praticamente in tredici.
E poi lui, il mattatore assoluto: Manuel Lazzari. La micidiale cavalleria leggera che ha distrutto qualsiasi opposizione sulla fascia di competenza, garantendo collegamenti continui tra fase difensiva e offensiva.
Con modalità differenti e una fisicità antitetica, ha occupato il ruolo funzionale di un centravanti-boa: quello che alza il baricentro e attira i difendenti, consentendo al resto della truppa di salire guadagnando posizioni.
Prova ne sia che la squadra ha regolarmente attaccato – e senza pericolosi sbilanciamenti – con più opzioni sul fronte offensivo, decisive per disorientare una difesa già carente nei singoli.
Muovendosi però come un diesel collettivo, senza sfiancarsi in continui scatti e rientri individuali, mantenendo compattezza e superiorità numerica in tutte le zone del campo.
Col risultato che Paulo Fonseca, abile nelle gare precedenti a puntare sulla semplicità di marcature a uomo, maggiore dinamismo e gioco all’italiana, si è ritrovato senza carte in mano da giocare.
In una serata perfetta, anche le sostituzioni si sono dimostrate all’altezza.
Rinunciando a rimpiazzare subito gli ammoniti – anche perché, col metro di Orsato in materia di cartellini, non sarebbero bastati i cinque cambi – Inzaghi ha permesso ai titolari in partenza di esprimere tutto, per poi avvicendare i più provati dall’intensità del match.
Tolto al momento giusto Leiva, gravato di un giallo e appannato dopo aver garantito, oltre alla copertura, la supplenza in terza linea quando i difensori si sganciavano in appoggio alla manovra offensiva.
Corretta anche la valutazione sulla spia della riserva di Caicedo, mentre qualche perplessità poteva destare l’inserimento di un centrocampista in più col rischio di perdere metri di campo e incisività in avanti.
Il quasi immediato 3-0 di Luis Alberto, pronto ad approfittare della posizione più avanzata, lascia intendere che il tecnico abbia avuto ragione anche in questa scelta.

L’altra chiave di lettura è legata alla testa: in una stracittadina che, nelle recenti edizioni, si è sovente decisa prima della partenza alla maniera dei GP di Formula Uno, con l’approccio mentale come equivalente della pole position.
La Lazio ha sfiorato la perfezione, con undici moschettieri uno per tutti e tutti per uno.
Con un centrocampo tutte stelle mai così votato al sacrificio e alla doppia fase, ma senza perdere in qualità.
Con una tenuta nervosa a prova di bomba, anche di fronte alla doppiopesista e intimidatoria gestione dei cartellini.
Con una concretezza senza precedenti, tant’è che è toccato a Pau Lopez – e non a leziosità o carenze tattiche – il compito di evitare un passivo a livelli mancuniani o bavaresi.
Quanto alla controparte, hanno probabilmente inciso le dinamiche interne degli ultimi anni, con una vera e propria pulizia etnica nei confronti della componente più sbracatamente romettara e fintamente locale.
Un regolamento di conti fra clan, uniti dal mantra “La xxxx non si discute: vi paga”; e, diciamocelo, sulla pelle di chi l’osceno feticismo per quel sodalizio lo coltiva senza guadagnarci nulla.
Dietro simili miserie si poteva, però, leggere un embrione di progetto calcistico: sprovincializzare il club sia nella veste tattica sia nella mentalità, sottraendolo alle montagne russe della proverbiale umoralità di quell’ambiente.
Se questa era la terapia, il medico ha sbagliato clamorosamente la dose: perché così facendo non si sono ampliati gli orizzonti, bensì tagliati i ponti alle spalle.
La non squadra cancellata dal campo ieri sera non ha sofferto solo un’inferiorità tecnica con pochi termini di confronto, ma ancor più e ancor prima la totale estraneità all’atmosfera del derby.
La deromolizzazione forzata condotta dalla proprietà yankee ha importato dallo Šachtar Donec’k non solo l’allenatore, ma la fisionomia societaria.
Delineando una franchigia simile a quelle che pullulano nei più improbabili campionati dell’Est.
Pescando da mezzo mondo giocatori magari di esperienza internazionale, ma con una mentalità totalmente orientata al mercenariato, senza più nessuno in grado di trasmettere ai nuovi cosa significhi una stracittadina.
Costruendo, in sostanza, una realtà tecnica e gestionale che potrebbe trovarsi dovunque, a prescindere da qualsiasi radicamento territoriale.
E, in una partita come il derby, certe scelte si pagano care.