di Er Matador


Il lungo addio della Lazio al campionato prosegue a Benevento, con una prestazione indecente sotto vari aspetti:

1) la conduzione tecnica. Chi considera Inzaghi un allenatore ha sempre sottolineato la sua presa sul gruppo: l’impressione è che anche questo argomento sia al capolinea.
La non squadra di ieri ricordava la Nazionale che l’innominabile ha condotto al centenario di Caporetto contro la Svezia.
La ricordava sia negli atteggiamenti, segnati dalla trasandatezza e dalla propensione a giocare ciascuno per sé, sia nello sfilacciamento del già logoro 3-5-2

2) Il livello umano e professionale del gruppo. Sullo sfondo di una situazione tecnico-tattica da esercito in rotta, si staglia una tara ormai consolidata e che ha preso forma durante la gestione Reja: un’eccessiva presenza di mezzi uomini, di svernatori, di feticisti del compitino.
Non si spiegano altrimenti la leziosità, la spocchia, l’inutilità dei millemila tocchetti di chi approccia partite con punti in palio come se si trattasse di un’esibizione.
Trasversale alle prime due osservazioni è la presenza nell’undici iniziale di Radu, un ex giocatore o comunque uno al momento non in grado di scendere in campo.
Verosimilmente espressione tanto di equilibri mafiosetti di spogliatoio quanto di chi se li lascia imporre per mancanza di personalità e potere contrattuale.
Oltre che, naturalmente, di una società disposta a tollerare simili situazioni

3) La costruzione dell’organico. Valga per tutte la prova di Escalante, forse l’attrazione della serata per l’occasione di valutarlo dal primo minuto.
L’argentino è apparso un elemento poco brillante; portato a badare al sodo; discretamente efficace in pressing; regolarmente risucchiato in avanti dall’appoggio alla manovra offensiva, e altrettanto regolarmente preso alle spalle nei ribaltamenti di fronte.
Di suo, considerando l’acquisto a parametro zero, un possibile buon affare e un innesto utile a rimpolpare le mai abbastanza numerose seconde linee.
Peccato che qui si stia parlando del teorico sostituito di Leiva, col quale non sembra vantare punti di contatto.
Uno gregario, l’altro leader; uno che ha come riferimento l’uomo in possesso del pallone, l’altro il senso della posizione e le linee di passaggio: al di là del livello tecnico dei due, caratteristiche troppo diverse.
Per accompagnare a fine carriera il brasiliano – elemento perno, ma un ex quando si gioca ogni tre giorni – serviva un sostituto in grado di giostrare da subito come titolare, per poi subentrare a pieno titolo dopo un periodo di affiancamento.
Ad oggi questa casella resta desolatamente vuota, contesa fra Escalante (altra tipologia, come detto), Parolo (ormai un adattato anche come giocatore in attività), Cataldi (improponibile in contrasto e invece sottovalutato come vice di Luis Alberto, che potrebbe surrogare almeno nella circolazione di palla).
È la spietata istantanea di un modo di fare mercato: che si presta all’occasionale colpaccio – ad esempio l’acquisto a zero di Reina, ieri decisivo nell’evitare il peggio – ma che affastella sedicenti “affari” e “occasioni” sostanzialmente a caso.
Affidando poi il tutto, per chiudere il cerchio, a un inadeguato in panchina e a una politica disciplinare da Inter.
Una caricatura dell’Avellino di Sibilia, che però aveva decisamente più occhio nell’evitare giocatori improponibili.
Questo modo di fare calcio, antiprofessionale e anacronistico, avrebbe anche stancato