di Er Matador


Partita dai tanti volti, forse troppi.
La Lazio che nei primi minuti non tocca palla e la Lazio che nel secondo tempo non la fa toccare al Borussia sul suo campo, impresa di livello tecnico da top club.
Il dominio del gioco e le troppe occasioni sprecate, a conferma di un killer istinct ancora impalpabile.
Contraddizioni che proseguono sul piano delle prestazioni individuali: ad esempio quella di Lazzari, dove a un lato tattico da autentico mattatore corrisponde un lato tecnico da zero cross azzeccati o quasi.
O ancora Hoedt, autorevole e affidabile come sempre in questo scorcio di stagione, ma allo sbando – e con lui le due linee più basse – in occasione del gol: situazione che si ripete immancabilmente, chiunque giochi, quando non si può difendere a difesa schierata.
Colpa più di queste dinamiche che del rinvio di Reina; il quale avrebbe dovuto dirigere il pallone verso l’esterno, ma l’aveva comunque rilanciato all’altezza della metacampo, e da lì in avanti c’era tutto lo spazio per evitare l’imbarcata di fine primo tempo.

Una squadra bellissima, spinta anche da cambi azzeccati come non mai e da un contributo sostanziale di tutti i subentrati.
Scelte che hanno premiato il coraggio nel rinunciare contemporaneamente ai tre tenori di centrocampo, forse i meno in vena del gruppo, e di improvvisare una mediana a due: dove AK-47 ha garantito il consueto impatto ed Escalante è risultato decisivo nel chiudere l’improvvisata cerniera.
Notevole sul piano della qualità anche lo spezzone di Pereira, agevolato dal predominio dei suoi che azzerava la fase di non possesso, nella quale è tuttora un uomo in meno.

Una vittoria strameritata sfumata per diversi fattori.
Un arbitro surreale, che nella scarsa credibilità delle scelte e financo degli atteggiamenti ha ricordato Byron Moreno.
La capacità dei tedeschi di imparare dalla partita d’andata, dove la loro difesa era apparsa penetrabile al centro in maniera imbarazzante.
Nulla di particolarmente originale, solo la scelta di concedere qualcosa sulle fasce privilegiando la densità al centro: e tanto è bastato per fare muro contro alcune promettenti soluzioni dalla media distanza, che all’Olimpico avrebbero trovato varchi favorevoli.
I limiti, più nella testa che nei piedi, quando arriva il momento di finalizzare: una prestazione del genere non può risolversi nel trovare la porta solo dal dischetto.

Quanto al doppio impegno con Udinese e Borussia, al di là delle rispettive opinioni su priorità e recuperabilità di una sconfitta, il problema mi sembra un altro.
Che una delle due gare venisse disputata con un livello di tensione più basso rientra nella norma: già, ma in cosa si traduce concretamente?
Nello sbracare completamente, passando da esibizioni spettacolari al nulla. Senza soluzioni e gradazioni intermedie, come se questa squadra funzionasse con un interruttore Acceso/Spento.
Non i cali di tensione, ma la totale incapacità di gestirli: questo, a mio avviso, l’elemento decisivo.
Una costante degli ultimi anni, della quale è difficile non chiedere conto a Inzaghi: le cui caratteristiche si adattano al preparare una partita alla settimana, non a un club in lotta su tre fronti.

A sua parziale e unica discolpa va citata la politica disciplinare, più inesistente che inadeguata, della società.
Troppe volte la squadra ha mollato platealmente, senza reazioni e provvedimenti per evitare che tutto passasse in cavalleria: e i giocatori sono sensibilissimi a certi segnali.
Sono i momenti – unitamente a quelli più difficili sul fronte dei direttori di gara – in cui vorrei un presidente simile alla buonanima di Luciano Gaucci.
Coi suoi tanti difetti, ma con le sue sfuriate contro i torti arbitrali e i ritiri in convento dopo sconfitte poco onorevoli.
La crescita della Lazio, indispensabile per concretizzare le attuali premesse, passa anche per questi dettagli.