di Er Matador


La Lazio archivia nel migliore dei modi l’ultimo tour de force, alla vigilia di un ciclo bimestrale senza impegni infrasettimanali: e lo fa innanzitutto con una straordinaria prova di carattere, in assoluto la vera novità della stagione.
Al di là dell’essere tecnicamente più o meno forti di questa, le formazioni scese in campo nelle ultime annate avrebbero probabilmente lasciato punti al Tardini, per i limiti caratteriali a causa dei quali mancava spesso il soldo per fare la lira.
Da Cagliari a Riad – quindi con tipologie di sollecitazioni assai diverse – gli undici in campo e subentranti hanno mostrato una personalità di tutt’altro spessore, soprattutto nel rimanere mentalmente in partita anche nei momenti più sfavorevoli sul piano tecnico-tattico.
Una drastica soluzione di continuità rispetto al crollo psicologico del Milan – di Pioli, of course – nel derby, forse la più credibile istantanea di troppi brutti ricordi.

Parlare solo della garra sarebbe, però, limitativo per una vittoria costruita innanzitutto a livello di calcio-calcio.
E in particolare di un primo tempo stradominato sulle fasce, con raddoppi e sovrapposizioni in serie che sapevano vagamente di Ajax.
Al funzionamento così implacabile delle catene sulle corsie laterali hanno contribuito in maniera decisiva le prestazioni dei due esterni nel terzetto difensivo.
La prova – in particolare nella prima frazione – di Acerbi rimarrà negli annali alla voce “giocare per due, anzi per tre”: prestazione a tutto campo come fonte di gioco inesauribile, superiorità numeriche a ciclo continuo, buona percentuale anche nella riuscita delle giocate.
Per capirci, ai livelli dei migliori Grun e Aldair: e se qualcuno storce il naso per il secondo accostamento, giova ricordare che di quegli altri il buon Pluto aveva davvero solo la maglia.
Quasi allo stesso livello, ma in crescendo, il sempre più sorprendente Patric: privato di qualche riferimento dalla composizione quasi inedita della linea a tre, ha riversato tutta la razionalità del caso nella scelta di soluzioni tecniche a basso rischio.
Arrivando, nel finale, a guadagnare palloni e perdere secondi preziosissimi con esibizioni palla al piede che francamente non gli si conoscevano.

La prestazione dei due ha fisicamente “spinto” quella dei quinti, che sulla carta sapevano piuttosto di “quinto quarto” dati i precedenti stagionali assai scarsi sia per quantità sia per qualità.
Marušić e Jony hanno invece viaggiato con buona sicurezza sul binario tracciato dai colleghi di fascia, in sintonia con le rispettive caratteristiche.
Più affidabile nella fase difensiva il primo; autore di pregevoli cross – con meno danni alle terga avversarie rispetto al solito – il secondo, che ha complessivamente tenuto a dispetto di un’insufficiente consistenza atletica.
A proposito del serbo-montenegrino, lo spezzone di Lazzari ha evidenziato la differenza fra i due.
L’ex spallino è in grado di variare il repertorio temporeggiando, creando lo spazio per la sovrapposizione, rientrando sul sinistro; laddove l’ex Ostenda non conosce alternativa alla percussione a testa bassa con acceleratore a tavoletta.
La scommessa consiste nel migliorare l’assortimento delle sue soluzioni offensive, magari recuperando quei tagli al centro per la conclusione intuiti nella prima stagione in Italia: un potenziale scacco matto, a maggior ragione contro difese schierate.

A rendere ancor più meritorio il quadro appena delineato contribuisce un fatto: in tutte e cinque le caselle, compreso il vertice basso rappresentato dal centrale della difesa a tre, figurava un giocatore diverso rispetto al titolare del ruolo.
Aver trovato la quadratura con naturalezza, di fronte a un turnover così radicale, implica un corollario fondamentale: a parità di giocatori, un organico più “lungo”.
A proposito della quinta casella, Luiz Felipe ha disputato la sua migliore gara in quel ruolo sul piano della concentrazione e della continuità.
Il quid del suo modo di giocare è tutto nella scivolata con cui tampona Cornelius sul vertice destro dell’area piccola.
Da un lato un intervento da manuale, che richiama brividi dimenticati per gli esteti e per chi ricorda altre Lazio.
Dall’altro il rischio che un pallone furbescamente spostato dall’avversario e un arbitro compiacente si risolvano in un disastro, anche in assenza di un fallo vero e proprio.
Il margine di miglioramento per questo ragazzo consiste proprio in un po’ di malizia ed essenzialità nell’evitare certi eccessi scenografici: altrimenti si fa presto a passare da un fisico statuario con movenze elegantissime, dal retrogusto quasi omerico, al foscoliano “bello di fama e di sventura”.
Oltre agli automatismi di cui sopra, il contributo di Inzaghi è emerso anche nei cambi, castrati in partenza dalla necessità di far rifiatare – come titolari o come subentranti – i singoli che meno di tutti avevano i novanta minuti nelle gambe.
Un Cubo di Rubik risolto con buona aderenza alle esigenze e all’andamento del match: forse uno dei due cambi finali poteva essere leggermente anticipato, ma col rischio di esporre Cataldi e Correa a un minutaggio prematuramente elevato.

Rimane una domanda, scomoda quanto ineludibile: perché una serie quasi infinita di notazioni positive ha prodotto una gara aperta fino all’ultimo, con un paio di arresti cardiaci sulla parabola a giro di Kulusevski (anche se Strakosha sembrava sulla traiettoria) e sul non rigore Acerbi-Cornelius (ma con certi arbitri…)?
Prima di rispondere, una notazione relativa al portiere greco-albanese: ottimo riflesso sulla parabola di Caprari, che verosimilmente non aveva visto partire, ma occhio a respinte come quella sul tiro di Kucka.
Una conclusione del genere – potente ma centrale e colpita “piena”, quindi senza effetti ingannevoli – va allontanata il più possibile verso l’esterno, non centralmente lasciandola nei paraggi.
Bravissimi i compagni a fare densità chiudendo lo specchio della porta al destro – peraltro non il suo piede – poco delicato di Gagliolo, altrimenti si sarebbe concesso un rigore in movimento.
Tornando alla domanda posta a inizio paragrafo, l’analisi può essere suddivisa in due tronconi.

Il primo riguarda la concretezza offensiva, che ha risentito della giornata negativa di Immobile: impagabile come sempre nel dare tutto per la squadra, quanto zavorrato nella lucidità e nella precisione dagli impegni senza sosta.
In mezzo a tanti passi avanti, l’assenza di un alter ego per Ciro e l’eccessiva dipendenza dalla sua vena realizzativa, quando si tratta di buttarla dentro, delineano direttrici di crescita da percorrere con urgenza.
Ieri a togliere le castagne dal fuoco ha provveduto ancora una volta Caicedo, fra i meno presenti nel gioco ma puntualissimo sulla palla utile a sua disposizione.
E se qualcuno parla di gol facile, provi a realizzare una soluzione di controbalzo – in assoluto la più esposta a figuracce – col piede sbagliato.
Fermo restando che, per farsi arrivare un pallone sporco con l’alzo giusto, bisogna prima crederci e dimostrare un discreto senso della posizione.
Alla sterilità delle azioni di rimessa ha contribuito anche un Correa ancora appannato; passi per la condizione approssimativa, ma certi errori di misura non sono da lui.
A monte, però, pesa il fatto di non averla chiusa in un primo tempo di dominio assoluto, e anche qui per un limite atavico: un’organizzazione offensiva non all’altezza di quella difensiva.
Produrre gioco sulle fasce in quantità industriale, se poi si distribuiscono cross a caso e trascurando la coordinazione con chi dovrebbe riceverli, rischia di servire solo per le più aride statistiche.

Il secondo riguarda l’atteggiamento tattico nella ripresa, quando la Lazio ha accettato il ritmo imposto dall’avversario – vale a dire l’unica risorsa che potesse mettere sul tavolo – perdendo troppo nettamente campo.
E, se la palla staziona a lungo troppo vicino alla propria area, la pericolosità di un errore o di una circostanza casuale aumenta esponenzialmente.
Si è parlato di atteggiamento tattico perché, pur accusando la minore freschezza rispetto al Parma, gli ospiti hanno retto ampiamente sul piano della corsa.
A fare difetto è stata un po’ di strategia nel distribuire energie e uomini in campo, in particolare nei giocatori-perno delle due linee basse.
Luiz Felipe e Lucas Leiva hanno tenuto botta alla grande sull’uomo e nei contrasti, ma sarebbe servita da parte loro una più solida leadership del reparto nell’imporre un minimo di elastico, di pressing preventivo, di propensione a salire per togliere campo all’offendente.
Un undici che attaccava in maniera quasi rugbystica, portando pressione col pacchetto di mischia ma senza grandi numeri nelle azioni alla mano, ne sarebbe risultato depotenziato in maniera decisiva risparmiando rischi e sofferenze.
In sostanza si è riproposto il peggio di Ledesma (la tendenza quasi parossistica ad abbassarsi sul limite dei propri sedici metri) senza il meglio di Ledesma (l’abilità nello spezzare ritmo e manovra avversari).
D’accordo che prendere falli contro una squadra di fabbri, e con un arbitro che fa da palo, non sia semplice.
Ma andava sfruttato al meglio, anche sotto questo profilo, un Luis Alberto ormai stabilmente promosso a uomo-squadra e giocatore totale a tutto campo.

Tutto è bene quel che finisce bene, comunque, festeggiamenti compresi.
Magari senza immaginare la classifica coi tre punti contro il Verona: altrimenti il fegato, già provato dai brindisi, rischia di cedere.