Giorgione era il nostro eroe. L’uomo del destino. Lo prendemmo insieme a Pino Wilson  dall’Internapoli, pagati in tutto cento milioni. L’affare del secolo. Giorgio era duro come il ferro, grosso come un bisonte, coraggioso, guascone, volitivo. Tecnicamente non dotatissimo, ma nemmeno scarso. In grado di sopperire con la forza a qualunque mancanza, Chinaglia si mise subito in evidenza, visto che la fame non gli mancava. Era cresciuto in Galles, dove la famiglia s’era spostata per lavorare, da Carrara. Mario Pennacchia, cantore delle storie biancocelesti, narra di un avventuroso viaggio solitario del piccolo Giorgio alla volta della Gran Bretagna, un cartello legato al collo con su scritta la destinazione, in caso si fosse perso.
Si era formato per strada, giocando a calcio e a rugby, e non aveva paura di niente. Con i suoi gol, la Lazio conquistò un ottimo piazzamento nel ‘70, ma non riuscì ad evitare la retrocessione l’anno dopo. Juan Carlos Lorenzo, suo primo mentore in biancoceleste, lasciò la guida della squadra a Tommaso Maestrelli, che stabilì con Long John un legame viscerale. Come padre e figlio.

I risultati furono eccezionali. Chinaglia riportò a suon di gol la Lazio in serie A e fu convocato in Nazionale da Valcareggi che ancora giocava in B, fatto rarissimo nella storia azzurra. Gestito al meglio da Maestrelli, che ne conteneva le esuberanze, incanalandole sul terreno di gioco, fu l’ariete della prima Lazio vincente della storia, segnando 24 volte nella stagione culminata con la conquista dello scudetto, giunto grazie a un suo gol al Foggia che chiudeva aritmeticamente il conto, facendo fuori la Juventus.

Parlare del Chinaglia-giocatore non rende però l’idea del valore inestimabile che l’uomo ebbe nell’universo laziale. Quella di Chinaglia fu una rivoluzione. Il coraggio e la spavalderia con cui fronteggiava i romanisti rivitalizzarono una tifoseria che veniva fuori dal suo periodo più buio. Dalla prima retrocessione, arrivata nel ‘60/61, la Lazio aveva inanellato una serie di stagioni oscure, tra salvezze tribolate, promozioni stentate e nuove discese negli inferi, cadendo ancora nel ‘66/67 e poi nel ‘70/71. Gli anni ’50, in cui la Lazio aveva conteso alla Fiorentina il ruolo di quarta grande, erano lontani.

C’era poco da opporre alla tracotanza del rivale cittadino, che per fortuna non brillava più di tanto a sua volta. Ma per i laziali, tradizionalmente composti e poco inclini a rispondere a tono, gli sfottò romanisti rappresentavano una specie di supplizio da subire con rassegnazione, viste le condizioni in cui versava la squadra. Chinaglia ribaltò la situazione, terrorizzando i romanisti, battendoli, sbeffeggiandoli, ingaggiando con loro duelli memorabili. Un uomo contro una curva, il dito alzato verso la sud, la riaffermazione di un orgoglio laziale che pareva ferito a morte.

Giorgione ci fece alzare la testa. Ci gustammo il nostro momento di gloria senza paura, senza pensare che tutto poteva finire e costarci caro come tememmo, poi, anche nel 2000. Pensieri tristi, legati alla scia di avvenimenti tragici seguiti allo scudetto del 1974, innescata dalla terribile malattia di Tommaso Maestrelli, fattore che escluse la squadra, in preda all’angoscia, dalla lotta per la conferma del titolo. L’1-5 subito in casa col Torino segnò l’abdicazione biancoceleste e arrivò, raccontano le cronache, nel momento in cui la squadra prese coscienza della malattia del suo Maestro.

Chinaglia allora mollò tutto e partì per l’America, seguendo la moglie e i figli verso una nuova avventura. Poi tornò per giocare e quindi ripartire definitivamente, al termine della stagione successiva, lasciando la squadra con un piede in serie B. La Lazio ce la fece, trovando un bravissimo Giordano, e Chinaglia si affermò definitivamente nel soccer americano, dove fece valere la sua personalità di leader in una squadra che allineava giocatori che avevano segnato la storia del calcio del dopoguerra, come Pelè e Beckenbauer, e uomini-simbolo del calcio totale, come Johan Neeskens.

Una ribalta che a Giorgione era stata negata da Valcareggi, incapace di rinnovare una squadra fatta di grandi giocatori a fine carriera, facendo una figura pessima in Germania nel 1974. Un mondiale amaro per i tifosi della Lazio, consapevoli che un più massiccio uso dei migliori elementi che avevano appena conquistato lo scudetto avrebbe potuto cambiare le sorti della spedizione in terra tedesca. Sordo ai segnali del campo, Valcareggi ignorò le indicazioni che gli giungevano dalle coppe europee, dominate da Bayern e Ajax, con le squadre italiane spesso relegate al ruolo di sparring partner.

Non si preoccupò di aggiungere tono al centrocampo ed elementi capaci di interpretare al meglio i dettami del calcio moderno che l’arancia meccanica olandese predicava da qualche tempo. La forza fisica dei polacchi, quindi, ci schiantò, ma avevamo disinnescato la possibile leadership di Chinaglia, messo in ballottaggio con Anastasi, rinunciato alla freschezza di Re Cecconi e alla precisa guida difensiva di Wilson, lasciato a casa Martini, Frustalupi e Oddi, che sarebbero stati in grado di rimpolpare al meglio la sazia pattuglia messicana.

Una scelta pagata cara dal CT, che Giorgio mandò platealmente a quel paese uscendo dal campo dopo la sostituzione nel match contro Haiti. Apriti cielo: gli strali della stampa sportiva, le liti furiose, il viaggio di Maestrelli in Germania per ricomporre la situazione sono storia. Chinaglia in America divenne il simbolo dei NY Cosmos e, quando smise, decise di tornare a Roma, acquistando la Lazio.

I laziali, precipitati di nuovo nel fango della serie cadetta, alzarono la testa, aspettando il loro eroe che tornava per salvarli. Io toccai il cielo con un dito. Chinaglia ci riportò in serie A, ma non riuscì a fare quello che voleva. I vagheggiamenti di sponsor globali e di dollari facili rimasero sogni proibiti, e la Lazio pagò, alla lunga, le sue scelte bizzarre e umorali. Lui avrebbe preferito di gran lunga rimettersi gli scarpini e tornare in campo.

Fu costretto invece a ripartire, lasciando la Lazio in stato di dissesto nelle mani del professor Chimenti, che la passò a Calleri quando il fallimento pareva ormai scontato. Il resto è storia. Stendiamo un velo pietoso sulla brutta appendice legata alla pseudocordata che avrebbe dovuto proporsi per rilevare la Lazio da Lotito, presentatasi nascosta dietro al suo faccione che per noi laziali rappresentava la mozione degli affetti. Finì male.

Denunce, accuse infamanti, fughe definitive. Fino alla notizia improvvisa della scomparsa, che squassò l’ambiente biancoceleste in un triste primo aprile. Il nostro eroe era morto, lontano dall’Italia e dall’affetto dei suoi sostenitori. I tifosi della Lazio gli hanno tributato un saluto affettuoso, decidendo di ricordare quello che era giusto ricordare e dimenticare il resto.
Giorgio ora riposa nella tomba della famiglia Maestrelli, vicino all’artefice della sua grandezza.